Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 24 aprile 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La malattia di Alzheimer, la più grave patologia
neurodegenerativa umana, nonostante l’impegno della ricerca, continua ad essere
una demenza non guaribile a 115 anni di distanza dalla scoperta dei due
contrassegni istopatologici (placche amiloidi e degenerazione neurofibrillare) e
dalla descrizione del comportamento di Auguste Deter da parte di Alois Alzheimer:
“Una donna di 51 anni ha mostrato gelosia verso suo marito come primo segno
rilevante della malattia. Presto si è potuta notare una perdita di memoria
rapidamente ingravescente. Non era in grado di orientarsi nel suo appartamento.
Portava oggetti avanti e indietro e li nascondeva. A volte pensava che qualcuno
volesse ucciderla e cominciava ad urlare”[1]. Ricordiamo
che Alzheimer con queste parole introdusse il caso paradigmatico di una donna
ammalata di demenza presenile con sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi
anni: nei casi familiari della malattia la prognosi è ancora la stessa.
Nella decade dal 2002 al 2012 il 99.6% dei farmaci anti-Alzheimer
in corso di sviluppo non è risultato idoneo e, secondo dati preliminari, il
decennio successivo ha finora mantenuto lo stesso tasso di fallimento. In altre
parole, solo lo 0,4% raggiunge l’approvazione, pur trattandosi di molecole che
agiscono solo cercando di contrastare i processi della fisiopatologia
neurodegenerativa, in quanto non si dispone ancora di farmaci in grado di
modificare la patogenesi. In queste condizioni, la definizione di biomarkers
affidabili, che possano fungere da spie precoci del processo patologico in una
fase preclinica, potrebbe orientare precocemente le strategie terapeutiche e
anche la sperimentazione di nuovi farmaci con percentuali molto più elevate di
possibilità che riescano a modificare la patogenesi.
Jodie Lord e colleghi hanno impiegato la conoscenza di
metaboliti ematici in precedenza associati alla cognizione nella mezza età e
considerati indicatori preclinici precoci di malattia di Alzheimer, per
indagare sistematicamente associazioni causali del successivo sviluppo della
neurodegenerazione. Considerato che i cambiamenti patologici sottostanti la
malattia di Alzheimer si ritiene che richiedano anni prima di causare effetti
clinicamente evidenti, i risultati di questo ambito di studi potrebbero fornire
indicazioni significative per lo sviluppo di interventi precoci.
(Lord J. et
al., Mendelian randomization identifies blood metabolites previously
linked to midlife cognition as causal candidates in Alzheimer’s disease. Proceedings of the National Academy of
Sciences USA –118 (16): e2009808118, April 20, 2021).
La provenienza
degli autori è la seguente: Department of Basic and Clinical Neuroscience,
Maurice Wohl Clinical Neuroscience Institute, Institute of Psychiatry,
Psychology & Neuroscience, King’s College London, London (Regno Unito); National
Institute for Health Research Maudsley Biomedical Research Centre, National Health
Service (NHS), London (Regno Unito); Institute of Pharmaceutical Sciences, King’s
College London, London (Regno Unito).
[Edited
by Marco Colonna, Washington University in St. Louis School of Medicine].
Si propone qui di seguito, in una
sintesi estrema, un’introduzione tratta da una monografia scritta in passato
per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante vari brani
nella sezione “In Corso” del sito[2].
Nel 1906 il neuropatologo tedesco
Alois Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni
sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante
malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento
mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive
due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le
placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel
1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum
movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[3].
All’originario lavoro di Alzheimer,
Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche molto
dettagliate[4]
e i suoi studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione
di alcuni rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in
Germania “morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di
Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma
grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di
Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo
la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[5].
Anche se l’identificazione di
questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di
neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità
medica perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua
eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica hanno
ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la
conoscenza e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed
inesorabile perdita delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che
termina con esito infausto.
“Si può dire che il primo reale
progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della
California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale amiloide delle placche
un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide
β-amiloide (Aβ).
Poco tempo dopo quattro diversi
gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il
peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del
peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare,
sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente
individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di
membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein o
βAPP. […]
Nel 1991, studiando il DNA di una
famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s
Hospital Medical School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul
cromosoma 21 e dimostrò che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel
frammento di DNA codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello
stesso periodo altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la
malattia di Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto.
Questa correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i
soggetti affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono
sufficientemente a lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia
simile all’Alzheimer.
L’idea che il peptide Aβ fosse
all’origine della cascata di eventi determinante la progressione della malattia
era ormai opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati
genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e
propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei
maggiori esponenti. […]
Nel 1992 Allen Roses sfidò
l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di
suscettibilità per lo sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza
nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per l’allele “ε4”
dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una lipoproteina che
trasporta il colesterolo. […]
La teoria dell’amiloide sembrò
avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi
collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2.
Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma
della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la
sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto
grave. […]
Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista
di Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto
A2M, un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo
gene fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da
parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del
valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses,
il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma 12, addirittura registrando
un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era convinto della mancanza di un
legame diretto con la patologia. […]
Il precursore della proteina
β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una
proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due
estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra,
la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide
beta-amiloide.
La funzione fisiologica non è nota[6]
ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due
diverse modalità. […]
La prima modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere
dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà
origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa modalità, ossia la scissione
mediante α-secretasi/γ-secretasi,
dà sempre luogo ad un peptide non patogeno.
La seconda modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima
tappa, in questo caso è la β-secretasi:
uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP,
sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[7].
La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40
aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa
piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che
determina la formazione delle placche”[8].
Queste nozioni costituiscono ormai una base consolidata
delle conoscenze patologiche sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo.
Riportiamo ora, qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione
a uno studio presentato lo scorso anno[9].
La malattia di Alzheimer, la più comune[10] e grave demenza neurodegenerativa,
costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici
e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia,
che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e
prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può
essere precoce, presenile[11], nell’età media della vita oppure in
età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può
presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e
Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici,
oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque
only type) o come taupatia senza placche evidenti associata a
demenza[12].
La maggior parte dei ricercatori che ritiene irrilevante la differenza
causale di fronte ad una patogenesi pressoché identica in tutte le forme
suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici, si possa identificare una
tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione in tutti i casi; fra
coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico, vi sono
ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale e
innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a
trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole
forme.
In ogni caso, lo studio della genetica è importante perché, anche se le
forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza, anche in quelle ad
eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del genotipo per lo
sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta soprattutto negli ultimi
decenni sulle cause genetiche delle anomalie molecolari riscontrate, pur non
essendo stata ancora decisiva per la comprensione dell’origine della maggioranza
dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione
da parte di St. George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme
ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid
precursor protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa
scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato
interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di
tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni:
avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel dato patologico
interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del cervello nella
sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una piccolissima
frazione di casi eredofamiliari di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono
una piccola parte del totale. In altre stirpi familiari studiate per la
presenza di casi ad ogni generazione, ereditati verosimilmente come un carattere
mendeliano autosomico dominante, sono state identificate rare mutazioni nel
gene della presenilina 1 (localizzato sul cromosoma 14) responsabili in alcuni
studi fino al 50% dei casi familiari, e della presenilina 2 (localizzato sul
cromosoma 1) responsabile di una quota degli altri casi ereditari[13].
La presenza di amiloide aberrante da sola non è in grado nel resto della
popolazione di causare la malattia neurodegenerativa, così si sono studiati i
geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[14], un regolatore del metabolismo
lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche
della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio
di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme
della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se decisamente più raro delle varianti di Apo
E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di sviluppare la
malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è responsabile di un
difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale ciclo fisiologico,
contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per la partecipazione delle
varianti di questo gene alla patogenesi non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra variazione genica, implicata sicuramente in
forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata presso il sito
dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce
con PS1 e PS2, oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.
L’importanza dello studio della genetica si può desumere
dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di
interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si cita sempre il caso
di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer
prelevò i campioni sui quali scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari,
ma non si riporta di un secondo caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome
di Johann F. e caratterizzato dall’assenza di degenerazione neurofibrillare,
cioè il primo paziente affetto dal plaque only type[15]. Nel suo cervello, oltre ai segni
generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli
macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche
senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza
della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a quell’epoca
una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati nella
ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in due
fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con capofila
Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”, rappresentata
dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca dei discendenti
Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di demenza neurodegenerativa
e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della β-amiloide”
ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati
dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a
42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti in
degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano
che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau fosse
responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e
consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle
sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda
tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi
neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di
Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo
paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le
acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e
poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[16]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario:
grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti,
riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed
elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava 1403
discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello studio,
la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico
dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di
rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire
a trovare un allele già identificato come patologico[17]. Anche se questo studio non
identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla
demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum
movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano
nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione fibrillare
seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare neuronico, come e
perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti clinici senza la
distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra scuola
neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non
differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella
patogenesi.
Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire
i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali
e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati
si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è
proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno
suggerito nuovi progetti di ricerca.
Ma torniamo allo studio qui recensito.
Jodie Lord e colleghi hanno verificato se 19
metaboliti, in passato associati alla cognizione della mezza età e considerati possibili
spie precliniche per prevedere lo sviluppo della neurodegenerazione, si
traducano più avanti nel tempo in fattori di rischio per lo sviluppo della
malattia di Alzheimer. A questo scopo hanno impiegato la randomizzazione
mendeliana (MR, Mendelian Randomization) per accertare l’esistenza di un
rapporto causale fra tali molecole e la demenza.
Per realizzare una MR-BU (bidirectional univariable)
sono state impiegate le statistiche riassuntive dei più grandi studi genetici di
associazione estesi all’intero genoma (GWAS, da genome wide association
study) per i metaboliti e la malattia di Alzheimer. Inoltre è stato realizzato
un BMA (Bayesian model averaging) per studiare l’elevata correlazione
tra i metaboliti e identificare combinazioni di metaboliti che possono essere
presenti nella via patogenetica alla neurodegenerazione.
La BU-MR ha indicato la presenza di quattro lipoproteine
extra-large ad alta densità (XL.HDL) nella via che conduce alla malattia
di Alzheimer. La MR-BMA indica XL.HDL.FC tra i tre principali metaboliti causali,
in aggiunta a colesterolo totale e glicoproteine acetilate. I risultati sono
poi stati replicati dai ricercatori in un altro set indipendente di dati.
In conclusione, questo studio offre nuovi elementi per
la conoscenza del rapporto causale tra metaboliti associati alla cognizione
nell’età media e lo sviluppo della demenza alzheimeriana, e evidenzia GP, oltre
a varie XL.HDL, e particolarmente XL.HDL.FC, quale elemento causale della
neurodegenerazione. Siccome la patologia cerebrale alzheimeriana si sviluppa
decadi prima di emergere clinicamente, un approfondimento di questo studio
potrebbe garantire elementi per studiare strategie preventive.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-24 aprile 2021
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 00-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[2] Perrella G., La Malattia di
Alzheimer – un’introduzione.
BM&L-Italia, Firenze 2004.
[3] Alzheimer A., Ueber eigenartige
Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.
[4]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische
Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[5]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der
Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[6] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici
della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie”
di questi anni.
[7] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase
cleaving enzyme).
[8] Perrella G., op. cit.
[9] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[10] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[11] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[12] L’Adams e Victor’s, ossia
l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata la
distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in passato
come demenza presenile perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva
solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano
come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce) propone di
considerare related but separable le varie forme eredofamiliari finora accertate
e descritte (Adams e Victor’s Principles of Neurology by Allan H.
Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063,
McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le volte che si rileva un marcato declino
cognitivo in età avanzata, con punteggi dei test corrispondenti alle
prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia neurodegenerativa, ci
troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR
(sistema computerizzato ideato dai coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al
Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi equivalenti, determina miglioramento
e talvolta totale recupero nei casi non dovuti a neurodegenerazione
alzheimeriana; presentazioni cliniche indistinguibili da quella della malattia
di Alzheimer possono presentare la paralisi sopranucleare progressiva, la
malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia
la degenerazione lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative
non alzheimeriane.
[13]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[14] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la dettagliata
documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle conoscenze attuali sul
ruolo di Apo E ε4.
[15] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[16] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[17]
Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.